Nella seconda metà degli anni settanta, rientravo da Milano in assegnazione provvisoria in una piccola scuola di montagna dell’alta Val Parma, giovane maestro animato da sincera passione educativa con scarsa esperienza e tanto entusiasmo. La permanenza quinquennale nella capitale del nord in quegli anni ricchi di fermenti sul piano politico, sociale e culturale, mi aveva introdotto in una realtà per me sconosciuta, attraversata da movimenti radicali che ipotizzavano l’autogestione pedagogica, l’elezione del direttore didattico e delle altre gerarchie amministrative, la fantasia al potere e la lotta armata, con le prime avvisaglie di quelli che poi furono definiti gli anni di piombo.
La scuola era attraversata da grande fermento innovativo, era il primo anno in cui trovavano attuazione i “decreti delegati” del ’74 che introducevano la partecipazione diretta dei genitori ai vari livelli di gestione: interclasse, circolo, distretto, provincia, nazione. Veniva introdotta la figura del collaboratore del direttore, in sostituzione della figura della maestra fiduciaria, con elezione diretta da parte dei colleghi.
Nel corso della prima “adunanza” dei maestri, il direttore ci informò dell’iscrizione di un bambino con gravi problemi che sarebbe dovuto entrare in prima e chiese alle colleghe del plesso di pertinenza se fossero disposte ad accettarlo in classe. La risposta fu no: perché “non era normale” e la sua presenza in classe avrebbe recato grave pregiudizio “al regolare svolgimento del programma”. Il direttore rivolse di nuovo la domanda a tutti per verificare se qualcuno si fosse reso disponibile ad accogliere in classe questo bambino e io alzai timidamente la mano tra lo sconcerto e la disapprovazione dei colleghi.
Al termine della riunione fui informato che mi era stata assegnata una pluriclasse unica di sedici bambini distribuiti in cinque fasce d’età, in una scuola priva di bidella dove i genitori provvedevano a turno alle pulizie, al rifornimento della legna e all’accensione della stufa al mattino. Mi si raccomandò di entrare a scuola con almeno una mezz’ora di anticipo per rifornire di legna la stufa ed evitare così che la classe rimanesse al freddo. Al momento dell’uscita dalla riunione il mio comportamento fu criticato e biasimato da quasi tutti i colleghi, solo un’anziana maestra si avvicinò per conoscermi, mi disse che apprezzava molto il mio coraggio e mi strinse con fervore le mani. Alzai lo sguardo per ringraziare per l’incoraggiamento e mi accorsi che aveva gli occhi pieni di lacrime: qualche tempo dopo seppi che aveva un figlio con disabilità psico-fisica che non era ma stato ammesso a scuola.
Ad ottobre, con l’inizio delle lezioni, mi resi subito conto di quanto temeraria fosse stata la mia decisione: avvertivo il peso dell’isolamento fisico e sociale, la mancanza di colleghi con cui confrontarmi, la difficoltà nelle comunicazioni con la direzione perché non c’era il telefono, la contrarietà delle famiglie che non volevano che questo bambino fosse ammesso a scuola insieme ai cosiddetti “normali”.
Siccome frequentavo in città gli ambienti dell’università e del sindacato, parlai con alcuni amici di quelle organizzazioni della mia situazione e fui indirizzato al Provveditorato dove mi fissarono un incontro con il dott. Cottoni che seguiva da tempo le tematiche della disabilità e avrebbe potuto essermi di aiuto. Trovai attenzione, ascolto e considerazione e dopo qualche incontro cominciò un’azione di accompagnamento che mi indirizzò verso il patronato scolastico per avere il trasporto casa-scuola e verso l’amministrazione provinciale che mise a disposizione un educatore per tre giorni la settimana. Mi furono dati preziosi consigli per gestire in modo corretto le relazioni con la famiglia del disabile e con i genitori degli altri bambini e preziose indicazioni tecniche per gestire al meglio le relazioni con i colleghi.
Dall’inizio di novembre il bambino iniziò una frequenza regolare e io e l’educatore dedicavamo circa un’ora la settimana per la progettazione delle attività didattiche per tutti con una interscambiabilità dei ruoli che risultava molto proficua per il raggiungimento degli obiettivi educativi e didattici.
Con l’inizio dell’anno nuovo fui ammesso nel gruppo che presso il provveditorato agli studi seguiva il tema della disabilità, coordinato dal dott. Cottoni, dove rimasi per circa venti anni e sotto la sua guida, una decina di anni dopo nacque il Cepis (Centro per l’integrazione scolastica) con funzioni di integrazione e raccordo tra il mondo della scuola e gli enti locali territoriali. Nel giro di un paio d’anni fu approvata la legge 517/77 che ammetteva ufficialmente i disabili a scuola e si aprirono nuove prospettive che non ci trovarono del tutto impreparati, grazie all’impegno e alla ferma determinazione del nostro coordinatore.
Sotto la sua guida, dai toni pacati e cordiali, elaborammo le prime tracce dei documenti che dovevano accompagnare il bambino dal momento del suo ingresso a scuola ed iniziammo a documentare il suo percorso di formazione e integrazione in un’ottica di inclusione che considerava prima di tutto le sue potenzialità e le prospettive di sviluppo per il suo progetto di vita.
Grazie al suo impegno si apriva una nuova era ed eravamo convinti di andare ormai verso la costruzione di nuovi orizzonti di senso dove, secondo il dettato costituzionale, la scuola era davvero “per tutti”.